venerdì 19 dicembre 2008

domenica 23 novembre 2008

Comunicare in pubblico - III Parte

Ciao a tutti, anche per questo post ho avuto qualche ritardo, ma se avete pazienza io ritorno sempre!!! Oggi terminiamo il discorso che avevamo intrapreso in questi ultimi due post e cioè il tema della Comunicazione in Pubblico detto anche “Public Speaking” data la mania anglosassone che ormai accompagna ogni materia di studio e non solo. Ma cominciamo!!
Oggi cerchiamo di concentrarci su alcune variabili che il buon oratore deve tenere sotto controllo nell’imminenza del discorso e durante il suo svolgimento. Cercherò anche di farvi capire quanto sia importante un adeguato collaudo degli apparati tecnologici di supporto e una sufficiente familiarità con l’ambiente in cui deve tenersi. Analizzeremo poi le problematiche relative al contenuto del discorso e al rapporto con il pubblico in sala, per imparare ad andare oltre il semplice intrattenimento e far sì che il proprio intervento possa raggiungere efficacemente gli ascoltatori. Se la sala è attrezzata con strumenti per la comunicazione audio e video (microfoni, amplificazione, videoproiettore, ecc.) possono crearsi molti spiacevoli inconvenienti che rischiano di rovinare la prestazione. La sala va visitata almeno qualche minuto prima di iniziare e gli strumenti vanno provati e sistemati. Le macchine sono utili ed efficaci, ma devono funzionare bene e bisogna saperle utilizzare. Nel public speaking le emozioni, il vissuto personale, il coinvolgimento, sono importanti per trasmettere al pubblico qualcosa di credibile ed utile. Tu, come un bravo attore, dovrai parlare a tutti, arrivare a tutti. Dovrai provare e riprovare, fino a che non si sarà abbassata la paura del giudizio, e avrai acquisito sufficiente sicurezza. Dietro le quinte, da qualche parte, dove puoi stare tranquillo, organizza un tuo spazio. Sarà il luogo dove potrai rilassarti prima di entrare in scena. Ti basta una sedia. Siediti più comodamente possibile, rilassa il corpo, chiudi gli occhi e fai qualche respiro profondo per rilassarti. E' normale provare un po' d'ansia prima di parlare in pubblico, ma una giusta dose di tensione aiuta a dare il meglio di sé. Ora tocca a te! Seduto o in piedi, di fronte a tanta o poca gente, sconosciuti, colleghi, allievi. Conta veramente molto poco. L’emozione dell’inizio, il primo contatto, è sempre forte, anche dopo anni di esperienza. Prenditi tutto il tempo che vuoi, ma non iniziare mai con il fiato in gola. Devi organizzare bene le prime parole che pronuncerai, puoi anche impararle a memoria, questo è un segreto per rompere il ghiaccio, il resto verrà da sé. E se ti capita di dover affrontare un argomento tecnico, di per sé arido, poco coinvolgente? Senz’altro dovrai far ricorso ai media, agli schemi, per rendere quanto più possibile comprensibile il tema che stai trattando. Ma in termini di comunicazione non cambia nulla: dovrai comunque attrarre il pubblico ed essere in grado di coinvolgerlo. Albert Einstein parlava di fisica, di atomi, disegnava formule alla lavagna, eppure in sala non volava una mosca! Stai attento a mettere troppa passione nel discorso: se non riesci a contenere la pressione emotiva che ti spinge a voler dare troppo, la tua generosità verbale ti condurrà fuori tema. Inizierai a prendere troppe vie trasversali, a ramificare troppo il discorso, oppure a procedere per cerchi concentrici, allontanandoti troppo dal nucleo centrale. Il rischio dei tre modi di procedere è perdere la strada e dilungarsi oltre i tempi previsti. La battuta spiritosa è un fattore coinvolgente, ma se esageri, scaricando la tensione in una serie di risate e di gag, otterrai un effetto comico che ti screditerà come relatore. La comicità và calibrata puntando su qualche sorriso, per poi tornare alla serietà professionale. Attingere troppo da modelli di public speaking televisivi (la dialettica dei conduttori di telequiz, show man, spettacolo di varietà, ecc.) porta a costruire una maschera, uno stereotipo comico inadatto alla maggioranza delle situazioni pubbliche relazionali. Il pubblico lavora con te. Se riesci ad immergerlo nel tuo flusso di comunicazione, si creerà una sorta di complicità data dal silenzio “attivo”. Si tratta di un silenzio inequivocabile, dove davvero stai trasmettendo qualcosa di importante. Il pubblico sa riconoscere subito un bravo oratore, dalle prime battute. Non devi cercare di convincerlo di essere preparato, non devi agire per sedurre: devi arrivare al pubblico solo perché sai quello che dici e come lo stai dicendo. Perché sei concentrato e soddisfatto di te. Il pubblico tende ad immedesimarsi con il relatore, ed è per questo che devi essere in grado di offrire la tua parte migliore (sia di uomo che di esperto). Raccontare esperienze personali è il modo migliore per portare sul piano della pratica, del “fare”, anche i contenuti più difficili. L’esperienza personale vince sui tecnicismi, sul più ricercato dei linguaggi, proprio perché agisce sul vissuto personale del pubblico. Coinvolgere? Non devi mettercela tutta. Devi restare sul piano della libertà di pensiero e sull’assenza di intenti manipolatori. Non è un buon metodo “costruire” il coinvolgimento, perché se anche, apparentemente, si ottiene consenso, non avrai agito in direzione dell’apprendimento. Lo scopo del public speaking è arrivare alle persone, non accontentarsi di averle intrattenute. Pensa sempre come puoi fare a costruire esempi diretti. Utilizza oggetti, porta con te creatività e innovazione, per trovare la chiave di una comunicazione personalizzata, visiva. Non ci sono limiti, se non quelli che ti impone la paura del giudizio, ma se non affronti il rischio del nuovo, della sperimentazione, resterai sulla linea di confine tra il relatore mediocre e il prestigiatore con il cappello magico. Il public speaking deve tener conto della capacità di gestione di un dibattito. Ti troverai a trasformare il ruolo di relatore in moderatore, e a dover: memorizzare le richieste di intervento per non scontentare nessuno; impedire che qualcuno trasformi una domanda in un palco personale; decidere se rispondere subito o raccogliere i quesiti e soddisfare le richieste alla fine; fare i conti con il tempo per non lasciare domande aperte e dubbi. Questi sono solo alcuni dei consigli più “famosi”, tutto il resto come sempre è esperienza!!! Non aver timore di comunicare, ricordati che questa è la sola strada verso il successo!!! Prossimamente cambieremo argomento (ormai non dico più mercoledì prossimo :-) Ciao a tutti alla prossima.

giovedì 13 novembre 2008

Comunicare in pubblico - II Parte

Ciao a tutti, riprendo oggi questa sequenza sulla comunicazione interpersonale con un po' di ritardo per problemi tecnici. Oggi tratteremo la fase decisiva del public speaking: il momento dell’orazione vera e propria.
Contrariamente a ciò che suggeriscono i decaloghi del public speaking, che ingessano la relazione, bisogna imparare ad essere interpreti del messaggio e non personaggi, lasciando spazio all’ironia, mostrando le proprie emozioni e ricercando il dialogo con il pubblico. Comunicare in pubblico è un compito non facile e, più aumenta il numero delle persone che ascoltano, più aumentano le difficoltà. Si perde il contatto diretto, si devono raggiungere tante menti diverse, ci si deve confrontare con universi emotivi spesso opposti e diminuisce la percezione visibile del feedback. L’oratore, come l’attore, affronta il palcoscenico con il corpo, la testa, il cuore, e deve essere perfettamente centrato su se stesso se vuole ottenere una performance di alto livello. Lo stile personale origina il carisma, ossia quel fascino che attrae le persone come una calamita e le apre all’ascolto. Gli oratori carismatici sono dotati di grande eloquenza, di un vocabolario ricco, di flessibilità vocale. Si muovono con grande disinvoltura sul palcoscenico e, come i grandi attori, sono in grado di tramutare una “papera” in una battuta ironica, di rivolgersi a tante persone come se dialogassero con un amico, con familiarità ed empatia. Dote indispensabile per parlare in pubblico è la capacità di concentrazione per lunghi periodi di tempo. Si entra in scena e si inizia, senza aspettare cenni di consenso da parte del pubblico. Mentre, da un lato, l’oratore deve restare in contatto emotivo con il proprio uditorio, da un altro egli deve anche sapersi isolare dall’ambiente esterno (dai rumori, dai disturbi), deve procedere lungo la strada del proprio pensiero. La timidezza si vince più probabilmente "buttandosi" nelle situazioni, di getto, affrontando il disagio di esporsi e lasciando la comodità del vivere da osservatori degli altri. Nelle scuole di teatro è la prima cosa che si insegna ai futuri attori. Provare, riprovare, imparare ad ascoltare quell’eco che alle prime esperienze continua a risuonare: il battito accelerato, la voce che rimbomba, che esce e si libera sempre più dalle emozioni negative. La timidezza si vince con la tenacia, affrontando la paura. L’ansia da prestazione è generata dalla paura del giudizio cui ci si espone. Le persone in preda all'ansia tendono ad affrettare i discorsi, a giungere prima possibile alle conclusioni per liberarsi di quel peso che quasi fa andare in apnea. Altre volte gli ansiosi sommergono l’uditorio di un fiume di parole, troppe, e dette troppo velocemente. L’arte del public speaking sta anche nel costruire lentamente la comunicazione, riflettere, vivere i silenzi come opportunità di concentrazione, rallentare per battere, paradossalmente, l’ansia. L’oratore perfezionista difficilmente piace al pubblico. Le persone hanno bisogno di serenità per ascoltare davvero, non devono vivere il nervosismo dell’oratore, né i tentativi di far apparire tutto a posto al 100%. Sull’incidente oratorio (ad esempio lapsus, gaffe, papere) i bravi comunicatori ridono per primi. Spesso, sono anche in grado di utilizzare quell’incidente come elemento di comunicazione. La comunicazione non verbale, espressa mediante il corpo, trasmette molto più delle parole, poiché è una comunicazione emotiva, inconscia. Lo stato d’animo del relatore viene dichiarato al pubblico anche senza intenzionalità. Cercare di nascondere le emozioni e bloccare il corpo produce solo un effetto ridicolo: in questo senso l’oratore non ha la capacità dell’attore di riprodurre gesti da copione, né deve acquisirla. I modelli del passato offrivano l’immagine di relatori compiti, impettiti, quasi ingessati, aggrappati ad un
leggio. Addirittura i best seller americani diffondevano inquietanti decaloghi su cosa fosse giusto o sbagliato nel public speaking, seminando panico tra i novizi e offrendo modelli stereotipati ai più esperti. In realtà regole non ce ne sono, l’importante è “arrivare” alle persone, stabilire un dialogo, anche se apparentemente dal pubblico non si riceve risposta. Come? Essendo davvero se stessi, offrendosi con grande slancio e disponibilità. Il relatore deve essere interprete del suo messaggio, ma non deve creare mai un personaggio. Questo diventerebbe la caricatura, la maschera: un filtro inaccettabile che è generato dalla ragione e blocca l’emozione spontanea. E’ più interessante sentire un oratore dichiarare: “sono emozionato”, che non soffrire insieme a lui mentre suda, si muove impacciato, non trova le parole, ma nega l’emozione sotto una maschera di apparente tranquillità. Tuttavia, alcune considerazioni sul corpo sono da ritenersi importanti per il public speaking. Ad esempio lo sguardo va rivolto a tutto l’uditorio, e di tanto in tanto fermato su un gruppo di persone: in questo modo la panoramica farà sentire tutti coinvolti, e il soffermarsi su alcuni, sempre diversi, sarà utile per personalizzare l’intervento. In sala bisogna muoversi: restare impettiti sempre nello stesso posto genera noia. Infine la voce deve essere attivante, deve cambiare di tono e ampiezza per dare ritmo alla comunicazione.
Per oggi mi fermerei qui, vi saluto e vi aspetto il prossimo mercoledì con il post conclusivo sul public speaking. Ciao

mercoledì 22 ottobre 2008

Comunicare in pubblico - I Parte

Ciao a tutti, eccoci ad un nuovo appuntamento con la comunicazione verso il successo. Vi è mai capitato di dover parlare in pubblico? Adesso tutti penserete a convegni, seminari, congressi. Beh io penso anche e soprattutto alla vita di tutti i giorni. Parlare in pubblico significa far capire il proprio punto di vista o spiegare qualcosa a qualcuno; parlare in pubblico vuol dire anche dover discutere un argomento in una interrogazione. Beh è un argomento complicato, ma come sempre ce la faremo!!! Cominciamo con questa prima parte.
La preparazione del public speaking costituisce un’attività complessa, cui l’oratore deve dedicare tempo e attenzione. L’orazione non può, infatti, essere affidata esclusivamente al talento del relatore, ma deve essere anche frutto di un’adeguata pianificazione. In questo modulo impareremo a preparare un discorso, tenendo conto delle variabili fondamentali che l’oratore deve saper gestire. Preparare un discorso pubblico è un po' come scrivere la trama di un romanzo: per farlo occorre imparare a rispondere alle domande fondamentali che aiutano nell'organizzazione dei contenuti e delle forme espressive. L’"ars oratoria" non è un’improvvisazione basata sul carisma del relatore. Senza una buona progettazione la comunicazione viene danneggiata dall’approssimazione o dalla mancanza di punti di ancoraggio. Già Cicerone indicava un metodo per la preparazione di un’orazione pubblica. La retorica classica suggerisce una serie di domande cui rispondere, che non si discostano molto dalle 5 W anglosassoni attualmente usate come punti di riferimento per costruire la scaletta di un public speaking. Un discorso, per essere chiaro ed efficace, deve rispettare la regola inglese delle 5 W: WHAT (il tema), WHO (il pubblico), WHY (gli obbiettivi), WHEN (il tempo), WHERE (lo spazio). Di cosa bisogna parlare? L’argomento è il primo elemento che deve prendere forma, in quanto dà una sorta di titolo alla definizione dei contenuti: circoscrivere il focus dell’intervento è importante per non rischiare la generalizzazione, per non cadere nella dispersione delle informazioni rischiando di sfilacciare il discorso. Il tema deve essere subito affrontato come un nucleo centrale da cui possono diramarsi approfondimenti e brevi divagazioni, ma al quale bisogna sempre tornare. Chi ascolterà il discorso? Raccogliere il maggior numero possibile di informazioni sul pubblico aiuta a definire la modalità di comunicazione, l’approccio al tema, gli esempi, lo stile di comunicazione. Dati importanti da rilevare sono: sesso, età, lingua, livello culturale, conoscenza del tema, obiettivi del pubblico, resistenze/barriere/preconcetti diffusi, numero di partecipanti. Quale scopo si vuole raggiungere? La meta è il progetto, il disegno finale che dovrà essere completo, raffinato, sintetico e che dovrà essere trasmesso al destinatario nel modo più comprensibile possibile. Gli obiettivi aiutano a circoscrivere il tema, ad introdurre ciò che davvero è utile, evitando di prendere strade senza uscita. E’ utile ricordare rispetto agli obiettivi da raggiungere, di inserire in giusta misura: ciò che è necessario, ciò che è utile, ciò che è complementare, ciò che è accessorio. Il tempo ha un significato doppiamente rilevante. Quanto tempo si ha a disposizione per preparare il discorso? Bisogna essere certi di poter dedicare del tempo alla preparazione della traccia. Inoltre, entrare in sala sottovalutando i rischi dell’emozione potrebbe portare a gestire in maniera inefficace il proprio intervento. Occorre quindi avere il tempo per creare il silenzio dentro di noi. Quanto tempo si ha a disposizione per il nostro intervento? Provare il nostro discorso ad alta voce ci permetterà di valutare la resa del nostro discorso, e se i contenuti previsti possono essere affrontati adeguatamente nel tempo a nostra disposizione. Dove avverrà la comunicazione? Lo spazio è un elemento chiave del Public Speaking: le dimensioni della sala, la presenza di attrezzature, la luce, lo spazio fisico in cui muoversi e la distanza dal pubblico, sono variabili fondamentali. Inoltre lo spazio significa anche la qualità del luogo, e comporta scelte di abbigliamento, di postura, di toni, completamente diversi. Cambia molto se ci si trova a parlare in un luogo istituzionale, in un albergo, in un agriturismo, o in una piazza affollata. La modalità di comunicazione è l’ultima scelta da fare perché deriva da tutte le componenti precedenti. A seconda degli obiettivi potrà esserci una maggiore enfasi sulla seduzione (pubblicità, convention di venditori, campagne elettorali, ecc.), la concretezza (meeting scientifici, report di progetto, ecc.), l’eleganza (riunioni formali, istituzionali, accademiche, ecc.), le emozioni (formazione, spettacolo, ecc.). O un accurato mix di tutto questo: il professionista della parola. Se i tempi lo permettono, lasciamo che la trama del nostro intervento viaggi con noi, nelle attività quotidiane. Ogni tanto, se non ci facciamo assalire dal senso del “dovere”, o dall’ansia da prestazione, ci arriverà un nuovo stimolo, un pensiero creativo, che ci aiuterà a preparare il nostro discorso. La chiarezza prenderà forma in una visione che ci emoziona, si arricchisce di particolari colti in altri contesti, che, casualmente, contribuiscono al progetto di comunicazione. Per scrivere una scaletta si parte da tre nodi fondamentali, che si possono memorizzare con la metafora dell’aereo: il decollo (apertura), il volo (nucleo), l’atterraggio (chiusura). L’idea del viaggio implica la sua durata (tempi), il bagaglio da portare (conoscenze), la curiosità (approfondimenti), la sperimentazione (l’innovazione). L’apertura di un discorso è una fase molto delicata. La tensione emotiva sarà al massimo e sarà importante partire senza esitazioni per non compromettere tutta la performance pensando “mi sto dilungando, ho perso il filo, ma che sto dicendo...”. Occorre trovare l’attacco, qualcosa che dia al pubblico un motivo per ascoltarci. Ad esempio si può ricorrere a metafore, esempi, aneddoti, racconti del proprio vissuto. Il nucleo del discorso può essere progettato a seconda della durata e dei contenuti, con diverse modalità narrative. Ad esempio può essere: un unico corpo con costanti divagazioni che sfiorano possibili approfondimenti, una serie di sintesi del tema affrontato per segmenti e completo in ogni parte, un flashback che parte dalle conclusioni per ricostruire il processo. Spesso nei convegni si arriva ad improbabili chiusure, dettate più dal tempo scaduto e dalla gente che comincia ad andarsene, che dalla volontà del relatore. Anche la chiusura va progettata, atterrando per gradi, ossia procedendo, indipendentemente dallo stile di comunicazione, alla chiusura progressiva del tema affrontato. Una buona strategia consiste nel conservare per la chiusura le informazioni più importanti (promesse in itinere), oppure ricorrere ad una battuta, un aforisma, che aiuti le persone a memorizzare l’evento. Se il Public Speaking è orientato all’utilizzo dei media, i materiali di supporto devono essere progettati con metodo e inseriti in scaletta nel punto esatto, per incastrarsi con il discorso parlato. I supporti devono essere coerenti sia per linguaggio, che per contenuti. Non è consigliabile esagerare poiché gli stimoli offerti dal multimediale sono a rischio di sovraesposizione: possono contenere troppe distrazioni e addirittura fuorviare la comprensione del messaggio. Le slide sono il supporto più veloce da preparare, e per questo si rischia di proporne troppe, annoiando il pubblico e allontanando l’attenzione dall’oratore. Le slide tuttavia sono modificabili anche all’ultimo momento, si possono scartare e aggiungere, seguono il ritmo della comunicazione. L’importante è non decidere di “farsi raccontare” dalle slide leggendone il contenuto: la loro utilità sta, infatti, nel proporre una scaletta sottolineando i punti chiave, non nel sostituirsi all’oratore. Il PC è uno strumento flessibile e può davvero offrire un alto livello di multimedialità. Alternando testi, slide, filmati, grafica, collegamenti ad Internet, è possibile organizzare tutto il proprio discorso, creando sempre occasioni innovative di incontro. Il PC va gestito come uno strumento creativo e, in fase di progettazione, può diventare la “valigetta” contenitore di tutto il sapere necessario. Progettare un audiovisivo strutturato, quali ad esempio un documentario, un film, un'animazione multimediale, è un operazione lunga e complessa, costosa, che molto di rado l’oratore può concedersi. Tuttavia, in presenza di questo tipo di supporti, occorre progettare uno spazio autonomo, dove i commenti saranno fatti prima e dopo, ma ci sarà assenza di relatore durante la visione. Gli audiovisivi strutturati occupano completamente l’attenzione del pubblico.
Per oggi mi fermerei qui, avrete tempo di riflettere sulle cose che ci siamo dette e continueremo a discutere del public speaking mercoledì prossimo. Ciao

mercoledì 15 ottobre 2008

I Modelli della Comunicazione – III° Parte – PNL e Analisi Transazionale

Per esprimere le proprie potenzialità comunicative occorre acquisire competenza nella gestione degli aspetti verbali e non verbali del proprio modo di comunicare. Inoltre è utile avere modelli di lettura degli aspetti che riguardano le dinamiche di rapporto tra gli interlocutori. In questo modulo conosceremo due modelli, la Programmazione Neuro-Linguistica, finalizzata alla gestione delle potenzialità comunicative, e l’Analisi Transazionale, finalizzata alla lettura delle dinamiche interpersonali. La Programmazione Neuro-Linguistica, o PNL, è una disciplina nata in California alla metà degli anni '70 grazie a Richard Bandler, e che prende spunto dalle basi teoriche della psicologia cognitiva, della cibernetica, della linguistica e della teoria dei sistemi. Si basa sul principio che ogni comportamento ha una sua struttura che può essere modellata, appresa, insegnata e modificata. La PNL prevede una serie di tecniche per organizzare le informazioni e le percezioni in modo da migliorare la propria capacità di comunicare in modo persuasivo e convincente. Il nome PNL fu scelto dai suoi creatori per indicarne in modo sintetico le componenti: Programmazione che indica il modo in cui si costruiscono sequenze comportamentali per ottenere risultati specifici; Neuro che indica che i comportamenti sono la parte evidente e osservabile dei processi neurologici; Linguistica che indica che i processi neurologici e i comportamenti sono codificati attraverso il linguaggio. Secondo la PNL l'essere umano, a differenza del computer, è anzitutto un "sistema per la produzione di senso". Gli individui "fabbricano senso" nei termini di significato e relazione: ovvero, cosa significa una certa esperienza e cosa fare in relazione ad essa.Ognuno di noi, attraverso le proprie percezioni sensoriali, crea una propria realtà soggettiva. Per esempio, possiamo supporre che di fronte a un cane tutti vedano un mammifero a quattro zampe (realtà oggettiva) ma ciascun osservatore associ a queste percezione le sue personali informazioni ed esperienze (realtà soggettiva): il cane è un pericolo, il cane è un aiuto nelle battute di caccia, il cane è un compagno di giochi. La PNL non si propone di essere utilizzata come forma di coercizione, bensì come strumento per ottimizzare le relazioni umane (relazioni “win-win”). Gli strumenti della PNL, proprio per la loro potenza ed efficacia, sono stati ideati secondo modalità “ecologiche”, devono essere cioè prive di conseguenze negative per le persone coinvolte nella relazione. Riassumiamo i principi della PNL: il rispecchiamento; i sistemi rappresentazionali; la comunicazione non verbale; i livelli logici; i metaprogrammi; il metamodello. Il rispecchiamento è il procedimento mediante il quale si imitano volutamente alcuni aspetti del comportamento del proprio interlocutore (gestualità, postura, respirazione, parole ecc.) al fine di aumentare rapidamente il livello di “rapport”, ossia di empatìa (fiducia, comprensione, disponibilità). Ad esempio se il mio interlocutore si toglie la giacca e si siede accavallando una gamba, anche io mi tolgo la giacca e assumo la stessa posizione sedendomi. Il sistema rappresentazionale è il canale attraverso il quale ciascuno si rappresenta mentalmente le informazioni.
I sistemi rappresentazionali sono basati sui sistemi percettivi: visivo (vista), uditivo (udito), cinestetico (sensazioni corporee), olfattivo (olfatto), gustativo (gusto). Ogni persona ha il suo sistema rappresentazionale dominante, quello cioè che preferisce utilizzare per acquisire o recuperare informazioni. I livelli logici sono credenze, valori e identità. Se non si sa dov’è posto il bersaglio non si può scagliare la freccia sperando di far centro. È utile allora seguire delle regole per raggiungere un obiettivo in maniera organizzata: in tal modo sarà possibile anche capire qual è la propria “mission”, andando oltre le credenze e acquisendo maggiore consapevolezza della propria identità. I metaprogrammi sono degli schemi interni di riferimento di cui gli individui si servono in modo consapevole per organizzare l’esperienza.Le esperienze quindi passano attraverso filtri sensoriali, comportamentali, sociali e culturali, sostanziandosi in una personale “mappa del mondo”, incanalando così il pensiero in solchi che il proprio ragionamento tende a seguire: riconoscere i metaprogrammi altrui permette di utilizzare le stesse tracce di pensiero, facilitando la relazione comunicativa.Ecco un esempio di metaprogramma di un’esperienza: sono nella biblioteca a sedere comodamente sulla poltrona, è pomeriggio e rimarrò qua un paio di ore (contesto). Sto leggendo un libro che mi piace (comportamento). Di solito leggo velocemente, ma adesso lo faccio lentamente e intercalo degli spazi di riflessione per assimilarne i contenuti, cogliere nella sua complessità la visione dell’autore e ricreare nella mia fantasia ciò che descrive (capacità). Quello che sto facendo mi procura piacere, interesse (convinzione). E’ un momento di crescita personale (valore). Sono una persona che ha curiosità verso il mondo (identità). Il metamodello è lo strumento linguistico di precisione. Il linguaggio porta spesso in vicoli ciechi: le sue trappole si chiamano generalizzazioni, cancellazioni, deformazioni della realtà. Il metamodello insegna proprio a scardinare quei costrutti linguistici ambigui, contribuendo al processo di cambiamento e di comprensione.
L'Analisi Transazionale è stata fondata da Eric Berne negli anni '50. Attraverso i suoi principi è possibile rendere immediatamente applicabili ed efficaci gli assiomi della comunicazione umana, coinvolgendo se stessi in un processo di apprendimento che farà acquisire nuovi strumenti, operativi e non solamente teorici, per relazionarsi con il mondo esterno alla ricerca di una comunicazione più consapevole. Secondo l’Analisi Transazionale l’individuo affronta la realtà attraverso tre diversi stati dell’Io: Genitore, Adulto, Bambino. Tali stati si manifestano come insiemi di azione-reazione nel processo di relazione con altri individui. Lo stato dell’Io Genitore comprende tutti i comportamenti appresi dall'ambiente esterno, e soprattutto dai genitori anagrafici. Ad esempio l'insieme delle proibizioni e delle imposizioni ricevute durante l'infanzia. Lo stato Genitore rappresenta la vita come apprendimento e possiede aspetti negativi e positivi, secondo 4 categorie:
- Il Genitore Normativo (GN), che imita comportamenti autoritari, utilizza intimidazioni al posto di consigli
- Il Genitore Affettivo (GA) che utilizza atteggiamenti positivi e di supporto legati alla norma, alla regola della vita comune, nel rispetto di sé e del mondo circostante
- Il Genitore Persecutore (GP), che esercita potere per compiacere un suo bisogno soggettivo
- Il Genitore Salvatore (GS), che incentiva il rapporto di dipendenza nei propri confronti.
Lo stato dell'Io Bambino raggruppa i comportamenti emotivi dell'uomo, sia che dimostrino sottomissione, sia ribellione. Anche nello stato Bambino ritroviamo comportamenti che riportano all'infanzia e alle emozioni risultanti dal confronto con i genitori anagrafici e con l'ambiente esterno. Allo stato dell’Io Bambino corrispondono quattro classificazioni:
- Il Bambino Adattato (BA) presenta atteggiamenti di rispetto delle norme, senza alcuna interpretazione di esse
- Il Bambino Libero (BL) è la posizione dell'Io che lascia libere le emozioni
- Il Bambino Ribelle (BR), incarna la trasgressione alle norme e alle regole del vivere sociale
- Il Bambino Sottomesso (BS) si comporta con mitezza ed eccessiva subordinazione.
L'Adulto è un insieme di pensieri, sentimenti e comportamenti coerenti con la situazione che si sta vivendo (luogo e momento, qui ed ora). Con lo stato dell'Io Adulto indichiamo la nostra capacità di elaborare continuamente nuovi dati, senza necessariamente fare ricorso a vecchi schemi e risposte incamerate nel nostro Genitore o Bambino. L'Adulto è la nostra capacità di autoprogrammarci, di assumerci le responsabilità delle nostre scelte e delle nostre relazioni. L'Io di ognuno è quindi composto da questi tre differenti stati, il Genitore (G), l'Adulto (A) e il Bambino (B), che costantemente si mostrano all'esterno attraverso specifiche parole, tono della voce, gesti, espressioni, postura, atteggiamenti, ovvero quelle che vengono chiamate le funzioni operative di ogni stato dell'Io. Ogni volta che si comunica con gli altri questi stati si alternano e si incrociano dando diversi significati alla comunicazione. Conseguenza dell’azione dei diversi stati dell'Io, che si mettono in campo in una relazione, è la “transazione”, ossia lo scambio relazionale. L’Analisi Transazionale analizza le possibili transazioni e le classifica in transazioni complementari e transazioni incrociate. Noi siamo al centro dell'universo di scambi con il mondo esterno, gli altri si rapportano a noi a partire dallo stato dell'Io complementare al nostro. Se osservo lo stato dell'Io che percepisco nell'altro comprendo lo stato dell'Io da cui provengo. Le transazioni complementari avvengono quando i vettori transazionali sono paralleli e lo stato dell'Io che risponde è quello cui ci si rivolge. Ecco dei dialoghi di esempio di comunicazione basata su una transazione complementare, tra due stati dell'Io Genitore <<>> . Ed ecco un altro esempio di transazione complementare, però tra Adulto e Adulto <<>>. Nella transazione incrociata i vettori transazionali sono incrociati. Lo stato dell'Io cui ci si rivolge non è quello che risponde. Ecco un esempio di transazione incrociata tra Genitore e Adulto <<>>. L’Analisi Transazionale è un modello molto complesso di comunicazione, che ha prodotto un metodo per la comprensione e risoluzione di problemi relazionali e di comunicazione. Analizza il linguaggio non verbale, la strutturazione del tempo della comunicazione, secondo l’esistenza di un copione, ossia di un piano di vita che determina le posizioni esistenziali con le
quali si vive, si giudica il mondo e ci si relaziona con se stessi e con l’ambiente.

giovedì 9 ottobre 2008

I Modelli della Comunicazione – II° Parte – Gli Assiomi

Ciao a tutti, scusate per il ritardo, ma non mi sono dimenticato di voi !!! Riprendiamo l'argomento con questa seconda parte dedicata agli assiomi della comunicazione; ci sarà una terza parte più interessante, non abbiate paura, dovete essere fiduciosi! Cominciamo!!!

Il modello pragmatico-relazionale si riferisce al comportamento delle persone in ambito comunicazionale. In questo modulo conosceremo i cinque assiomi della comunicazione e affronteremo i rischi legati ai messaggi paradossali che spesso gli interlocutori si scambiano. Lo studio della comunicazione si può dividere in tre settori: sintassi, semantica, pragmatica. La sintassi è la branca della linguistica che studia le regole che stabiliscono il posto che le parole occupano in una frase e come le frasi si dispongano a formare un periodo. La semantica studia il significato delle parole, degli insiemi delle parole, delle frasi e dei testi. La pragmatica studia i modi in cui è possibile usare il linguaggio in situazioni concrete. Bateson, Watzlawick, Beavin e Jackobson, gli autori del libro “La pragmatica della comunicazione umana” definiscono alcune proprietà semplici della comunicazione, che hanno fondamentali implicazioni interpersonali. Queste proprietà sono degli assiomi, cioè fatti ritenuti talmente evidenti nell'esperienza comune da non necessitare né di dimostrazione né di discussione. Questi sono i cinque assiomi della pragmatica della comunicazione umana: 1. non si può non comunicare, 2. ogni comunicazione ha un aspetto di contenuto e uno di relazione in modo che il secondo classifica il primo ed è quindi metacomunicazione, 3. la natura di una relazione dipende dalla punteggiatura delle sequenze di comunicazione, 4. gli esseri umani comunicano sia con un modulo numerico sia con quello analogico, 5. tutti gli scambi di comunicazione sono simmetrici o complementari a seconda che siano basati sull’uguaglianza o sulla differenza. Non comunicare è impossibile: si comunica anche attraverso il comportamento e ovviamente è impossibile non avere un comportamento. L’intero comportamento in una situazione di interazione ha valore di messaggio. Indipendentemente dalla propria volontà infatti gli individui si scambiano un gran numero di segnali, attraverso vari canali. Ad esempio due persone che salgono insieme in ascensore e durante il tragitto guardano fisso nel vuoto, si stanno comunicando il desiderio di non comunicare. Lo studente che se ne sta per conto suo in classe durante il break sta comunicando che non vuole parlare con nessuno e i suoi compagni, in genere, recepiscono il messaggio lasciandolo stare. Immagina una situazione tipica, l’incontro tra due estranei di cui uno vuol comunicare, mentre l’altro no.

Le reazioni possibili sono: rifiuto della comunicazione, accettazione della comunicazione, squalificazione della comunicazione, sintomo come comunicazione. Ecco qualche esempio di comportamento relativo: se rifiuto la comunicazione, il messaggio implicito che invio è "mi rifiuto di comunicare", con le conseguenze espressive, verbali e non verbali della mia decisione; se accetto di comunicare posso farlo in diversi modi, anche senza utilizzare le parole. Basta che accetti la relazione, senza chiudermi; squalificare una relazione significa non ritenere gli altri e le loro informazioni utili, quindi, in qualche modo, non mettersi in relazione con gli altri; posso agire in maniera tale da esprimere i segni della mia volontà o non volontà di comunicare, ad esempio attraverso l’azione non verbale. Ogni atto comunicativo non solo trasmette informazioni, ma al tempo stesso suggerisce un comportamento. Ogni comunicazione ha quindi un aspetto di notizia e uno che informa sul modo in cui si deve assumere tale comunicazione. La capacità di metacomunicare in modo adeguato è una condizione necessaria alla comunicazione efficace, ma è anche strettamente collegata al problema della consapevolezza di sé e degli altri. Ad esempio è diverso dire "vi prego di fare silenzio per consentire il proseguimento della lezione" da "fate silenzio e seguite la lezione". Anche se hanno più o meno lo stesso contenuto, le due frasi definiscono relazioni docente/allievi molto diverse tra loro. Questo aspetto della comunicazione è in genere meno consapevole. Gli scambi comunicativi non costituiscono una sequenza ininterrotta, ma sono organizzati proprio come se seguissero una sorta di punteggiatura. E’ possibile in tal modo identificare le sequenze di chi parla e di chi risponde, definire ciò che si considera come “causa” di un comportamento, distinguendola dall'“effetto”. I modi di punteggiare una sequenza di eventi sono molto diversi e quindi possono generare conflitti di relazione. Sono infatti gli individui stessi a definire durante l’interazione la relativa punteggiatura. Ad esempio, prendiamo un insegnante e uno studente che hanno un problema di cui ciascuno ha la sua parte di responsabilità: lo studente affrontando lo studio in maniera insufficiente, l'insegnante comportandosi in maniera severa e criticando. Se spiegano il perché della loro condotta, lo studente afferma che non ha voglia di studiare perché l'insegnante ormai lo ha preso di mira e lo ha etichettato come svogliato, qualsiasi impegno scolastico sarebbe valutato in maniera insufficiente. L'insegnante invece considera questa spiegazione come una deformazione di ciò che succede realmente dal momento che lei si è fatta un'opinione negativa del ragazzo perché lui non ha voglia di studiare e critica lo studente per il suo scarso impegno. Se non si risolvono le discrepanze relative alla punteggiatura delle sequenze di comunicazione, l’interazione è un vicolo cieco. La comunicazione patologica può diventare un circolo vizioso che si interrompe solo se la comunicazione diventa l’oggetto della comunicazione stessa, cioè quando i comunicanti diventano in grado di metacomunicare, uscendo fuori dal circolo. Vi è infatti una circolarità dei comportamenti per cui è impossibile stabilire quale sia la causa e quale l’effetto. Il modulo numerico riguarda l’uso di parole, il modulo analogico consiste invece in tutte le modalità della comunicazione non verbale che servono soprattutto a trasmettere gli aspetti relativi alla relazione tra i partecipanti. Nel tradurre un messaggio analogico in uno numerico, bisogna aggiungere funzioni di verità logiche che mancano al modulo analogico. L'uomo sembra l'unico organismo che utilizza modalità analogiche e numeriche di comunicazione. Il linguaggio numerico ha permesso lo scambio di informazioni e la trasmissione di conoscenza nel corso del tempo, che altrimenti non sarebbero state possibili. C'è un settore però in cui contiamo quasi esclusivamente sulla comunicazione analogica ed è quello della relazione. Qui il linguaggio ha solo una limitata percentuale di efficacia: si può dire qualsiasi cosa con le parole, ma è difficile sostenere un'affermazione sul piano analogico se è una bugia. L’interazione simmetrica è caratterizzata dall’uguaglianza, e si ha questo tipo di interazione quando un comportamento di un membro tende a rispecchiare quello dell’altro. Le relazioni complementari sono invece caratterizzate dalla differenza esistente tra le persone: un partner assume una posizione superiore e l’altro assume una posizione inferiore. Le posizioni non implicano una valutazione come buono, cattivo, forte o debole, semplicemente definiscono il tipo di relazione che si può creare tra due individui. La relazione tra due studenti è una relazione simmetrica, la relazione insegnante-allievo è una relazione complementare. In una relazione, due diversi comportamenti che si sono adattati ai rispettivi ruoli, sono interdipendenti, cioè si richiamano a vicenda. Un individuo non impone ad un altro una relazione complementare, ma piuttosto ognuno di loro si comporta in un modo che presuppone il comportamento dell'altro e nello stesso tempo gliene fornisce le ragioni. Tutti gli scambi di comunicazione sono simmetrici o complementari a seconda che siano basati sull'uguaglianza o sulla differenza. Il paradosso è un messaggio contraddittorio in quanto afferma contemporaneamente un concetto e il suo contrario. Ad esempio è un paradosso dire a qualcuno "non devi avere paura", in quanto l'interlocutore che ci comunica di avere paura, sta rilevando una situazione esistente e involontaria. Si ha un paradosso anche quando si afferma una cosa che successivamente viene disconfermata con il proprio comportamento o col proprio dire. Ad esempio pronunciamo elogi verso una persona per la sue qualità ed al minimo errore gli gridiamo che non è bravo a niente. Ecco un esempio di comunicazione paradossale tratto dalla storia. I nazisti avevano promesso a Sigmund Freud (il padre della Psicoanalisi) di poter uscire dall'Austria con un visto a condizione che sottoscrivesse una dichiarazione da cui trapelasse che era stato "trattato dalle autorità tedesche e in particolare dalla Gestapo con tutto il rispetto e la considerazione dovuti alla sua fama di scienziato". I nazisti volevano usare Freud per diffondere la loro propaganda nel mondo. Freud si trovò davanti ad un dilemma: sottoscrivere il documento implicava aiutare il nemico, rifiutarsi significava andare incontro a qualunque conseguenza. Ma Freud riuscì ad imporre il paradosso ai nazisti. Come? Chiese di poter aggiungere al visto frasi come queste: "Posso vivamente raccomandare la Gestapo a chicchessìa", la situazione era così ribaltata. La Gestapo che aveva costretto Freud a lodarla, ma coloro che sapevano cos'era il nazismo, capivano il sarcasmo di quella lode che negava con ironia il contenuto sottoscritto per forza. Un messaggio basato sul doppio legame è codificato in modo che: asserisce qualcosa, asserisce qualcosa sulla propria asserzione, queste due asserzioni si escludono a vicenda. Quindi se il messaggio è un'ingiunzione, l'ingiunzione deve essere disobbedita per essere obbedita. Ad esempio, può capitare che i bambini possano percepire la rabbia e l'ostilità di un genitore, e che però il genitore neghi di essere arrabbiato e pretenda che il bambino ammetta che lui non è arrabbiato. Così il bambino si trova di fronte al dilemma se credere al genitore o ai propri sensi. Se crede ai propri sensi, mantiene una salda presa sulla realtà, ma incrina la sua relazione col genitore; se crede al genitore, mantiene la relazione di cui ha bisogno, ma distorce la propria percezione della realtà.

Oh Dio oggi è proprio troppo, ma so che mi perdonerete!!! Alla prossima!!!

mercoledì 1 ottobre 2008

I Modelli della Comunicazione – I° Parte

Ciao a tutti, oggi conosceremo i principali modelli della comunicazione, da quelli lineari a quelli che, invece, interpretano la comunicazione come un processo circolare e interattivo. La conoscenza dei modelli aiuta a definire sia il contesto in cui avviene una comunicazione che la relativa applicazione dei principi inerenti. Mostreremo come il destinatario rivesta un ruolo fondamentale nella costruzione del significato, che non è quindi predeterminato, ma muta al mutare delle situazioni e degli interlocutori. Lo schema di Shannon e Weaver ha l'obiettivo di individuare sia la forma generale di ogni processo comunicativo, sia i fattori fondamentali che lo costituiscono, quegli elementi, cioè, che devono essere presenti ogni qual volta si verifichi un passaggio di informazione. La fonte è l'origine dell'informazione. Essa genera un messaggio che un apparato trasmittente trasforma in segnali. I segnali a loro volta sono trasmessi mediante un canale fino al ricettore che li converte nuovamente nel messaggio ricevuto dal destinatario. Elemento di ostacolo al buon fine del processo comunicativo è il rumore, cioè la presenza di disturbi lungo il canale, che possono danneggiare i segnali. Lo spazio della comunicazione, ossia il luogo ove essa avviene, può influenzare l’apprendimento dell’esperienza e interferire con i contenuti. Lo spazio relazionale deve essere avvolto dal “silenzio” della concentrazione, dove è possibile creare ambienti favorevoli allo scambio. Il concetto di spazio è affidato a tre elementi: concentrazione, rumore, ambiente. Quanto tempo è possibile concentrarsi sull’altro e su se stessi, in una relazione? Fino a che l’interesse per quella circostanza non è terminato, o intervengono impedimenti esterni che ne determinano la fine. L’ascolto attivo è basato sulla concentrazione, il cui livello più è alto, più potrà originare risultati di sintesi soddisfacenti. E’ opportuno sottolineare che per “concentrazione” non si intende uno “sforzo”, ma la naturale dedizione ad un’attività relazionale coinvolgente. Una situazione ad alta concentrazione, dove il rumore è assente, o comunque contenuto, consente una comunicazione più ricca, sia emotivamente che razionalmente. Si riescono a percepire bene le variazioni del tono di voce, un tremore, un’indecisione. La situazione ad alta concentrazione è rara e difficile da vivere per lunghi periodi di tempo, soprattutto se il rumore è “interno”, cioè dovuto a difficoltà relazionali. Come conseguenza sia del livello di rumore, che della capacità personale, possiamo avere invece situazioni a bassa concentrazione, dove più che comunicare, si fanno “chiacchiere”. In simili situazioni, le possibilità sono due: o si “passa” il tempo (acquisizione di informazioni superficiali), o si ricorre al monologo interno, per comprendere, dall’osservazione dell’altro e di se stessi, quali sono gli impedimenti ad una comunicazione e come fare a superarli. Ogni interferenza alla comunicazione si definisce “rumore”. Un ambiente relazionale deve avere un “controllo” del rumore sufficientemente valido a limitare le interferenze. In casi estremi, quando il rumore può distorcere la comunicazione, è meglio interrompere il contatto, poiché è del tutto inutile relazionarsi per comprendere male, o non comprendere affatto. Un ambiente disponibile al flusso di comunicazione consente un buon livello di comunicazione. È un ambiente “aperto”, dove c’è spazio per parlare, ascoltare, comprendere; un ambiente privo di giudizi, di stereotipi, dove il “qui ed ora” è l’unico riferimento temporale. Un ambiente disponibile si riconosce subito dall’accoglienza, dalla distensione, dal sorriso. L’ambiente ostile, dove regna il conflitto, l’aggressività, e dove il rumore sovrasta la comunicazione, trova la sua direzione temporale nel passato, dove si ragiona per “ricordi” e le interferenze deviano il corso del flusso di comunicazione. L’ambiente ostile andrebbe affrontato con le giuste armi difensive, ma abbassando la guardia, di tanto in tanto, per vedere se, da qualche parte, fiorisce il seme della possibilità di comunicare. L’ambiente neutro è la sede del tempo futuro. Tutto quello che viene detto o fatto è interpretato e proiettato “altrove”. Perfino le emozioni mutano in altre. Spesso è la paura della chiarezza, di far domande, di sentirsi dire qualcosa di spiacevole o non corrispondente alle nostre aspettative, che genera la “fuga” in avanti, prediligendo così un ambiente neutro. Il modello linguistico-semiotico parte della considerazione che la comunicazione è efficace solo quando i codici utilizzati sono patrimonio comune a tutti i comunicanti coinvolti e quindi possono essere compresi e interpretati nella totalità del loro significato. All'emissione del messaggio corrisponde un fatto comunicativo che, per essere correttamente compreso, necessità della condivisione di un codice comune da parte dell’emittente e del destinatario del messaggio stesso. Per essere patrimonio comune i segni che costituiscono i messaggi devono far riferimento ad un codice che li regola e li struttura mediante norme ben precise. Le componenti fondamentali di un segno sono date: dal significante, ovvero la parte concreta del segno, quella percepita dai nostri sensi, e che si presenta diverso per ogni codice (ad esempio la parola "casa"); dal significato, che corrisponde al concetto cui rimanda quello specifico significante (ad esempio "costruzione per abitazione stabile"); dal referente, che indica la cosa reale cui rinvia il segno (ad esempio l'edificio reale nel quale abitiamo). Il modello psicologico-sociale pone come oggetto di studio l'osservazione del comportamento, da cui dedurre l'atteggiamento interiore e la motivazione alla comunicazione. Questo modello si basa su alcuni presupposti: il comportamento è dato dall'insieme di quelle attività che possono essere osservate da un'altra persona; l'atteggiamento viene valutato rispetto all'orientamento favorevole o sfavorevole verso l'altro; la motivazione viene ricondotta alla necessità di regolazione del comportamento, tendente a soddisfare un bisogno o a raggiungere una meta. Joe Luft e Harry Ingram, nel 1961 crearono uno schema, detto modello di consapevolezza o "finestra di Johari". Quando ci poniamo di fronte agli altri siamo disposti a rivelare alcune cose di noi (so e dico), ma non altre (so ma non dico). A dire cose che sappiamo e a tacerne altre. Tuttavia possiamo serbare dentro di noi cose che abbiamo dimenticato o di cui non siamo consapevoli (non so e non dico), o a rivelare nostro malgrado cose di cui non siamo consapevoli, ma che gli altri percepiscono e interpretano correttamente (non so e dico). Le interazioni fra i quattro quadranti determinano quattro tipi di rapporti: comunicazione aperta, informazioni che trapelano o rivelazioni inconsapevoli, confidenze o sfoghi, contagio emozionale. Conoscersi significa man mano estendere il quadrante in alto a destra (Io aperto), riducendo gli altri. La finestra si applica anche alla comunicazione non verbale e ai comportamenti. L'io aperto si mostra con gesti volontari, nel modo di vestire e negli atteggiamenti sociali. L'io inconscio e quello occulto si rivelano con atteggiamenti involontari ma ben decifrabili da chi ci osserva. Il modello conversativo-testuale studia il rapporto tra "destinatario e testo". La linguistica testuale individua la significazione di un testo considerandolo nella sua forma globale, strutturale e complessa. Il significato globale può quindi emergere da mille elementi per cui una frase rimanda ad un’altra, anche lontana nel testo (anafora), o addirittura ad elementi che nel testo sono sottintesi. Per quanto riguarda l'aspetto "conversativo" del rapporto di comunicazione, viene proposta l'immagine di un fruitore che, grazie alle proprie capacità e competenze nel costruire un'interpretazione, può arrivare ad una condizione di "riscrittura" del testo. La collaborazione del fruitore alla produzione del testo avviene dunque perché il contenuto della comunicazione muta con i destinatari, con la condizione della ricezione, con lo status sociale e culturale del fruitore, dei suoi gusti, dei suoi processi di interferenza e sovrapposizione. Secondo il modello conversativo performativo la comunicazione è un processo attraverso cui un'idea è trasferita da un emittente ad un destinatario con l'intenzione di cambiarne il comportamento. Questo approccio alla comunicazione presuppone ovviamente un forte controllo dell'intenzionalità da parte di chi lancia il messaggio. Un altro elemento indispensabile è il livello di accettabilità della comunicazione, poiché alla base di una conversazione deve esistere uno spazio di comprensione comune tra chi parla e chi ascolta, ed una disponibilità a comunicare. La comunicazione si concretizza attraverso varie funzioni chiamate "atti linguistici". Gli atti linguistici, secondo John Searle sono: atti direttivi, atti commissivi, atti dichiarativi, atti assertivi, atti espressivi, atti di domanda. Ciascun atto linguistico svolge una funzione specifica nell’interazione comunicativa.

Gli Atti direttivi: detti anche “di comando”, consistono nel rivolgere all’interlocutore delle richieste esplicite, che hanno valore solo se chi li esprime ha il diritto di formularli. Gli Atti commissivi: si riferiscono al prendere un impegno, e presuppongono un rapporto di subordinazione. Gli Atti dichiarativi: esprimono la dichiarazione esplicita di uno stato di fatto, di una posizione presa, di una linea di tendenza e producono cambiamenti nelle relazioni sociali. Gli Atti assertivi: permettono di comunicare la propria percezione della realtà. Gli Atti espressivi: servono a manifestare i propri stati d'animo e a comunicare a livello emotivo. Gli Atti di domanda: soddisfano il bisogno di chiarezza di chi comunica per poter procedere nella relazione e nelle iniziative comuni. Il linguista Roman Jakobson, ha proposto una lettura della comunicazione fra mittente e destinatario. Per essere operante, il messaggio richiede in primo luogo il riferimento a un contesto che possa essere percepito dal destinatario, e che sia suscettibile di verbalizzazione. In secondo luogo esige un codice interamente, o almeno parzialmente, comune al mittente e al destinatario. Infine occorre un contatto, un canale fisico e una connessione psicologica fra il mittente ed il destinatario, che consenta loro di stabilire e mantenere la comunicazione. A questi distinti elementi della comunicazione Jakobson sovrappone le finalità o funzioni linguistiche, tra cui: la funzione emotiva è costituita dall’insieme degli elementi che qualificano lo stato emotivo; la funzione denotativa esprime la qualità emotiva del messaggio di chi parla; la funzione fàtica comprende tutti gli elementi della comunicazione tesi a stabilire la presenza del “contatto” tra gli interlocutori; la funzione conativa riguarda gli aspetti pragmatici della comunicazione, ovvero quelle espressioni che agiscono sul destinatario per spingerlo ad un’azione; la funzione referenziale o informativa la comunicazione è soprattutto diretta a fornire una determinata informazione sulla realtà; la funzione estetica o poetica l'attenzione del mittente è specialmente diretta verso la struttura stessa del messaggio, verso la sua organizzazione formale (come l'aspetto fonico delle parole, la scelta dei vocaboli); la funzione metalinguistica il messaggio fa riferimento ad elementi che definiscono il codice stesso (come quando si chiede chiarimenti su un certo termine). Beh l'argomento è alquanto lungo e complicato! Per oggi vi lascio e vi attendo con la prosecuzione dell'argomento il prossimo mercoledì. Grazie e buona comunicazione!!!

mercoledì 24 settembre 2008

La Comunicazione per la Formazione


Ciao a tutti, scusate per il ritardo! Oggi parliamo di un particolare ambito della comunicazione di assoluta valenza sociale. Mi riferisco alla comunicazione che un “maestro” deve tenere per poter insegnare qualcosa un un suo “discente”. La comunicazione per la formazione è una comunicazione per obiettivi e la definizione della sua area d’azione è data dall’ampiezza delle finalità. Fare formazione è un'attività di facilitazione dell'apprendimento, che consiste nella capacità di creare le migliori condizioni possibili. In questa competenza rientra la capacità di comunicare efficacemente di cui noi ci stiamo occupando in questa serie di post. In questo contesto la relazione interpersonale assume un aspetto ambiguo: si pone sempre sullo scambio umano alla pari, ma attribuisce al ruolo dell’esperienza del formatore una posizione di responsabilità sul piano del passaggio di contenuti, comportamenti, valori, nei confronti del ruolo di chi apprende. Quindi il rispetto dei ruoli è fondamentale, così come la capacità di comunicazione integrata del formatore. Il contenuto della formazione deve poter agire su piani molteplici. La parte informativa, da sola è insufficiente. L’apprendimento basato su un processo intellettuale ha poche possibilità di qualificarsi come evento di cambiamento, se non è sorretto da una comunicazione che sa agire a livello emozionale ed esperienziale. In qualsiasi progetto formativo la relazione interpersonale rappresenta il nucleo fondamentale dell’attività, e deve proporsi quale supporto allo svolgimento dei processi finalizzati a quel triplice obiettivo definibile nei termini di conoscenze, comportamenti, atteggiamenti. I metodi che possono essere impiegati per raggiungere questo triplice obiettivo devono avere la forza di integrare le direttrici dell’apprendimento verso le tre sfere, in maniera equilibrata. L’aula è un contenitore, entro il quale si svolge il “teatro del sé”, in cui le persone devono sentirsi libere di esprimersi, dichiarare difficoltà, vivere i conflitti. Fuori di là c’è il mondo, che attende, come verifica, i risultati dell'apprendimento. L’unico giudizio consentito sarà sul livello di performance finale. La comunicazione formativa ha come requisito indispensabile la scelta della modalità di comunicazione più appropriata. Un’analisi dei migliori metodi di formazione e delle tecniche in essi contenute, può far decidere la strada da intraprendere ai formatori che vogliono svolgere il loro lavoro con competenza relazionale, cognitiva ed emozionale. All’interno del metodo si trovano racchiuse le tecniche di comunicazione più efficaci che faciliteranno il compito della formazione. Prima di scegliere un metodo di formazione, l’attenzione va rivolta ai reali bisogni degli allievi, ai requisiti che vengono richiesti in uscita, agli obiettivi e al cambiamento atteso. Il focus dell’attenzione è sulle persone, mai sull’ “effetto culturale”. Un bravo formatore deve portarsi dietro la sua preparazione tecnica, ma soprattutto l’arte del trasferimento dell’esperienza e la capacità di relazione, che passano attraverso il metodo che poi sceglierà di impiegare. Il counseling è un metodo di formazione che integra diversi metodi e tecniche allo scopo di sviluppare le doti relazionali indispensabili alla crescita di sé e delle persone che dovranno essere formate. Nella relazione d'aiuto fra un esperto formatore (counselor) ed una persona bisognosa di scoprire e/o riscoprire le proprie risorse (discente), il counselling implica la creazione di una relazione collaborativa motivazionale e di un clima appropriato per la costruzione di una prassi mirata al cambiamento. Attraverso lo studio dei principi dell'analisi transazionale, è possibile rendere immediatamente applicabili ed efficaci gli assiomi della comunicazione umana, coinvolgendo se stessi in un processo di apprendimento che permette di acquisire nuovi strumenti, operativi e non solamente teorici, per relazionarsi con il mondo esterno, in qualsiasi campo in cui ci sia una grande importanza nello scambio di comunicazione tra individui. La PNL è una metodologia che si basa sul principio che ogni comportamento ha una sua struttura che può essere cambiata. Ci sono vari campi nei quali la PNL è utile: la comunicazione, lo sviluppo delle capacità mentali manageriali, lo sviluppo delle capacità personali. E questi tre campi hanno, nella capacità di gestire il proprio comportamento in maniera finalizzata, il punto in comune con il bagaglio indispensabile al formatore. La funzione dell’accoglienza è l’incontro, la rassicurazione, la possibilità di relazione, che il formatore deve saper stabilire con i discenti. Il formatore accogliente non è mai giudicante, si pone sul piano relazionale in apertura, e offre le migliori condizioni per l’incontro. L’accoglienza sa indirizzare il riconoscimento del merito, sa premiare o consolare quando ci si trova davanti ad un fallimento, e sa aiutare a superare gli inevitabili ostacoli di tutti i processi di apprendimento. La componente normativa che il formatore deve possedere si mette in azione quando è necessario dare un ritmo al lavoro, esaminare i risultati, stimolare la dedizione all’apprendimento. La norma richiama all’ordine, ad una disciplina di sé che evita di cadere nella trasgressione, nel tentativo dannoso di disconoscimento dell’importanza del percorso formativo. Il formatore deve essere in grado di comprendere chi ha davanti, poiché nella vita relazionale troverà molti allievi, tutti diversi tra di loro. Il suo lavoro comprenderà l’abbattimento di barriere all’apprendimento, e quindi alla comunicazione, egli dovrà cercare di sciogliere quelle resistenze che si manifesteranno durante il percorso, rispettando la personalità dei discenti. La matrice di Gallup può essere utile per farsi un'idea della motivazione delle persone a partecipare alle attività formative, avendo come criterio il grado di soddisfazione che esse mostrano rispetto alle conoscenze possedute. I profili individuati sono il risultato della combinazione tra due direttrici: "quanto sono soddisfatto del mio livello di capacità" e "quanto mi ritengo capace di saper fare". Il presidiatore si caratterizza per un'alta soddisfazione sulle proprie capacità e un'alta consapevolezza di saper fare. Ha la tendenza a conservare e mantenere le proprie convinzioni con una certa ostinazione e ad avere comportamenti di distacco e conflitto nei confronti dei suoi interlocutori. Per il presidiatore "non c'è nulla che noi possiamo raccontargli che già non conosca". La strategia per catturare la loro attenzione consiste nel mettere in crisi, con domande garbate e con ironia, le loro conoscenze. Gli alieni si caratterizzano per l'accontentarsi di quel poco che sanno fare. La strategia per catturare la loro alienazione consiste nel diminuire il grado di soddisfazione sulla competenza, enfatizzando la rilevanza e l'importanza dell'argomento di cui si sta parlando. I "bevitori" si caratterizzano per la sensazione di saper fare poco e per la rabbia associata a questa sensazione. Hanno spesso ansia di apprendere e aspettative molto elevate nei confronti del docente. Si può dire che abbiano "fame" di conoscenza, e che provano indignazione quando le proprie aspettative non vengono soddisfatte. La strategia per catturare l'attenzione degli individui appartenenti alla categoria dei "bevitori" è comunicare dando molte informazioni, con molta disponibilità, approfondendo sempre, se richiesto, l'argomento trattato. I masochisti si caratterizzano per un'insoddisfazione di fondo sulle proprie competenze, che pur riconoscono essere molto buone. La strategia per catturare l'attenzione degli individui appartenenti alla categoria dei masochisti, consiste nel riconoscere la loro competenza in una data materia o su uno specifico argomento. É inoltre importante porgere l'informazione con empatia e con una buona dose di partecipazione emotiva. La formazione può essere vista come un processo comunicativo finalizzato all’apprendimento, quindi si tratta di un processo molto complesso, in cui sono presenti da un lato il docente e dall’altro il discente. Se il rapporto tra le parti è troppo sbilanciato, la comunicazione diventa poco efficace. Una delle situazioni più comuni, che potrebbe rendere la relazione problematica, si verifica quando esiste un rapporto troppo sbilanciato tra gli interlocutori. Se il formatore stabilisce una comunicazione ad una via e presta poca attenzione all’interazione, il suo diventa un monologo, dove i tentativi di interruzione vengono vissuti come disturbo. Le cause possono essere diverse, come ad esempio la scarsa empatia, la difficoltà di concentrazione, la bassa competenza relazionale, una certa inadeguatezza nei metodi di comunicazione utilizzati. L’effetto che si ottiene con questo approccio relazionale è l’ascolto passivo. L’ascolto passivo è causa di basso apprendimento o di errori di interpretazione, che possono generare distorsioni sia sul piano cognitivo che su quello comportamentale. Il formatore deve impegnarsi a stimolare l’ascolto attivo, e accertarsi che i messaggi vengano trasmessi all’allievo nel modo giusto. Domande, esercitazioni, osservazione del non verbale, stimoli emotivi e fisici, sono gli strumenti migliori per agire in tal senso. Il rischio di trasformare la comunicazione in una trasmissione monotona di informazioni è un’altra causa di poco coinvolgimento dell’allievo. Bisogna concentrarsi sulle proprie competenze linguistiche e paralinguistiche per essere in grado di trasformare il proprio pensiero in comunicazione efficace. Il cardine della competenza comunicativa è sempre la formazione, che necessita però di chiarezza e semplificazione per dare garanzie di ascolto. Il formatore deve essere un comunicatore creativo. Deve saper sperimentare, inventare soluzioni innovative, aprirsi a nuove frontiere sia nel metodo che nelle modalità relazionali. In questo modo egli sarà una fonte per i suoi allievi di intuizioni e ne stimolerà il pensiero creativo. Essere creativi significa uscire dagli schemi rigidi e soprattutto superare la mancanza di motivazione per innovare ogni volta e aprire la strada al cambiamento. Spesso chi è destinatario della formazione tende a spostare la comunicazione su un piano polemico, a causa delle proprie resistenze al cambiamento. Il rischio di conflitti è molto elevato, poiché anche il formatore può avere difficoltà a comprendere il vero significato di una specifica domanda o affermazione forte da parte dell’allievo, che può nascondere una provocazione o una sfida. Per evitare il conflitto, il formatore deve sottolineare sempre il rispetto dei ruoli, ancorando gli interventi alle proprie competenze e ai propri obiettivi. Concentrarsi sul proprio ruolo, cercando di evitare di mettere in dubbio le proprie capacità di riuscita, potrebbe essere un modo per aiutare gli allievi ad uscire dal piano polemico e a riconoscere i reali bisogni. Nella comunicazione formativa è determinante che il maestro gestisca gli aspetti della propria personalità in modo tale da contenere la relazione con il discente entro un assetto in grado di supportare l'apprendimento. Il formatore deve infatti porsi solo come tramite per la crescita dei discenti evitando di assumere atteggiamenti da protagonista che, se troppo evidenziati, rischiano di ridurre notevolmente le possibilità di espressione dei discenti. Il processo di apprendimento, e specularmente il processo di insegnamento, necessità del feedback, ossia di quelle informazioni che gli altri ci comunicano su quanto stiamo comunicando o facendo. Se la comunicazione è stata impostata in modo corretto, si assisterà a un feedback spontaneo, come ad esempio una richiesta di approfondimenti, oppure ad un intervento particolarmente creativo di un discente. Ciò significa che la comunicazione è bidirezionale, cioè che sta funzionando. Il caso contrario, cioè l'assenza di interventi da parte dei discenti, significa che qualcosa non va, e occorre "indagare" cosa sia. In questo caso sarà utile “forzare” il feedback dei discenti stimolandoli ad intervenire, a chiedere chiarimenti, oppure ricorrendo ad esercitazioni, test, domande di rinforzo. Il formatore deve lavorare individualmente su tutte le persone, e per ognuna di esse dovrà avere un quadro chiaro della situazione in uscita dal processo di apprendimento. Dall’analisi del feedback potrà ottenere informazioni sull’efficacia del percorso, correggere il tiro, eliminando o inserendo nuovi argomenti, o modificando il metodo e le tecniche. Guidando i discenti verso l'espressione del loro potenziale, il formatore vive a sua volta un’esperienza molto arricchente. La crescita professionale di una persona è un risultato che indica che la formazione è stata progettata e gestita nel modo appropriato. Aiutare i discenti a superare problemi, resistenze, a scoprire nuove possibilità, ad esplorare le proprie potenzialità o semplicemente ad apprendere nuove procedure o tecniche, può essere molto gratificante.

mercoledì 17 settembre 2008

L'ascolto efficace II° Parte - Ascolto Empatico


Ciao, benvenuti al terzo appuntamento con la “Comunicazione Interpersonale”!!
Oggi parleremo ancora di ASCOLTO EFFICACE ed in particolare di ASCOLTO EMPATICO.
Il modo più efficace per capire anche il punto di vista emotivo dell'interlocutore è sicuramente saper assumere un atteggiamento di ascolto empatico. Con questo post vi voglio guidare nell'attivare le vostre risorse per ascoltare in modo empatico, mettendovi alla pari con l’altro. Solo così, infatti, è possibile vivere la relazione comunicativa in modo completamente “aperto” a contatto con l'altro e come occasione di crescita. L'ascolto empatico rappresenta un livello ancora successivo all'ascolto attivo. E' la capacità di calarsi nei panni dell'altro per comprendere a pieno il suo punto di vista, fatto non solo di pensiero ma anche di emozioni, stabilendo con l'interlocutore un contatto esente da giudizi e basato sulla comprensione reciproca. L’empatia non implica necessariamente dare consigli, che potrebbero essere piuttosto un modo per controllare l’altro o renderlo dipendente, né significa porsi come risolutore dei problemi altrui. L’ascolto empatico, però, può consentire di dialogare con l'interlocutore in modo che questi possa ricevere informazioni che lo aiutino a chiarirsi meglio le idee. Per realizzare un ascolto empatico bisogna cercare il più possibile di rinunciare a qualsiasi forma di prevaricazione o sottomissione, ponendosi esattamente alla pari con l’altro. Anche se l’incontro avvenisse tra un top manager e un operaio, ciascuno dei due avrà l’opportunità di scambiarsi il proprio punto di vista esperienziale, arricchendo in qualche modo la visione dell'altro. L’ascolto empatico prescinde perciò completamente dalla cultura e dall’intelletto e colloca tutti sullo stesso piano. Parlare piace, ma ancor di più piace essere ascoltati e compresi, soprattutto perché libera dalla responsabilità e dalla fatica dell’ascolto. Quando l’ascolto empatico si realizza si riconosce subito: gli occhi divengono un ponte di collegamento, la comunicazione è più fluida, difficilmente le pause o i silenzi vengono interrotti e l'atteggiamento degli interlocutori è più rilassato e spontaneo. L’ascolto empatico è silenzioso, ma non privo di parole. Gli incoraggiamenti a proseguire, le domande stimolanti, la riformulazione, aprono la via della chiarezza. L’attività dell’ascolto è rivelata dalla concentrazione: se chi parla perde il filo, il buon ascoltatore lo aiuta subito a riprendere il discorso, esattamente da dove si era interrotto, condividendo la sintesi del vissuto, sia razionale che emozionale. Le domande di chiarimento vengono rivolte a se stessi per organizzare meglio il rapporto tra pensiero e azione. Occorre però limitare l’impiego di queste domande per evitare che la comunicazione diventi un monologo. Infatti, poiché un linguaggio che impiega troppo questo tipo di domande esclude temporaneamente l'interlocutore dalla possibilità di entrare nel discorso, risulta noioso e porta progressivamente alla chiusura del dialogo. Le domande di approfondimento possono essere chiuse o aperte. In ogni caso mirano ad ottenere informazioni precise o a capire meglio il pensiero che si cela dietro al linguaggio. Aiutano ad aprire altri canali di comunicazione e arricchiscono il linguaggio di simboli, metafore, lo rendono insomma più “visivo” nella sua rappresentazione. Il feedback, ossia l’informazione di ritorno necessaria per verificare la comprensione del messaggio, è favorito nell’ascolto attivo e ancor di più in quello empatico dalla serena predisposizione a qualsiasi tipo di risultato possa nascere dalla comunicazione. Il feedback in questo senso è libero da manipolazioni, e non è una libera interpretazione della componente emozionale del messaggio dell'interlocutore, ma una sintesi attinente a quanto è stato realmente espresso dall'altro. Nell’ascolto empatico non ci sono regole rigide né ricette universali, quello che conta è il livello di confidenza e disponibilità che si riesce ad instaurare con l’altro. Tuttavia alcuni suggerimenti possono tornare utili: non avere alcuna fretta, cercare di cambiare i punti di vista, chiedere eventualmente aiuto per capire, lasciar trasparire le emozioni, impiegare l’ironia, ascoltare se stessi. L’ascolto attivo si sviluppa con tempi lenti. Non è possibile stabilire in anticipo l’effettiva durata di una conversazione. E questa regola a maggior ragione vale per l’ascolto empatico. Quando il processo di comprensione si è concluso, si avvertirà una tranquillità nella relazione a livello emotivo, mentre a livello cognitivo non saranno presenti altre perplessità o domande da rivolgere. Se ci si allontana dai modelli, dalle distorsioni cognitive, dalle barriere all’ascolto, dalle rigidità di apprendimento, si assisterà ad un flusso di comunicazione, verbale e non verbale, che potrà arricchire i punti di vista di entrambi gli interlocutori. L'acquisizione del punto di vista dell'altro può portare a modificare in maniera più o meno pronunciata il proprio punto di vista. L’impiego delle domande diviene una richiesta d’aiuto per capire meglio e per approfondire, da parte di chi ascolta. La ricerca di chiarezza è un elemento fondamentale, perchè ascoltare significa dare senso alle parole dell'altro. Perfino un cenno del capo può essere una richiesta di comprensione. Chiedere aiuto per capire, mai per giudicare, interrogare o colpevolizzare, significa anche mostrare interesse per le parole dell’altro, reciprocando in questo modo il suo desiderio di esprimersi e comunicare con noi. Se durante l’ascolto si lascia trasparire il proprio vissuto (soprattutto attraverso il canale non verbale), chi parla si sentirà più libero di esprimere la propria emotività. Viceversa, se l’ascoltatore indossa una maschera, si creerà una distanza relazionale e l’ascolto rischierà di divenire semplicemente una “tecnica”. Colui che parla, infatti, si accorge che l’altro nasconde qualcosa e, per riflesso, sceglie una maschera ancora più pesante da indossare. L’ironia sa risollevare situazioni complesse, nelle quali la tensione rischierebbe di divenire troppo alta degenerando in aggressività e conflitto. Un sorriso, una battuta, alleggeriscono la pesantezza di conversazioni noiose o inconcludenti, risvegliando anche l'attenzione dell'altro. Inoltre, “ascoltare” e dare spazio al proprio sorriso, crea una maggiore disponibilità verso chi parla e chi ascolta. I segnali provenienti dall’altro assumono valore solo se l’ascoltatore sa prima ascoltare se stesso, le proprie emozioni, il proprio pensiero profondo. L’ascolto di se stessi non termina mai alla fine di un incontro, ma l’elaborazione conduce ad una sintesi solo quando chi ha ascoltato ottiene il proprio feedback, oltre quello dell’altro. Il momento della sintesi varia a seconda dell’intensità e dell’importanza della relazione. In questo modulo sono state descritte le dinamiche dell’ascolto empatico, che presuppone un atteggiamento privo di protagonismo e aperto nei confronti dell’altro. Sono stati presentati dei consigli utili per entrare in empatia con l’interlocutore ed è stata illustrata la strada verso la comprensione dei contenuti e delle emozioni nella comunicazione.

mercoledì 10 settembre 2008

L'ascolto efficace - I° Parte - Ascolto Attivo


Ciao, benvenuti al secondo appuntamento con la “Comunicazione Interpersonale”!!
Oggi parleremo di ASCOLTO EFFICACE ed in particolare di ASCOLTO ATTIVO, nel prossimo post poi parleremo di ASCOLTO EMPATICO. Cominciamo.
Ascoltare non significa sentire quello che l’altro ci dice, quanto dare spazio all’altro, essere pronti a cogliere ciò che ci vuole comunicare, anche se ciò che ci sta dicendo non corrisponde alle nostre aspettative. L’ascoltatore attivo desidera comprendere l'altro, e sa dosare nella comunicazione razionalità ed emozioni. Bisogna integrare emozioni e ragione nell’ascolto per non rischiare di deformare i messaggi e coglierne il reale significato. Ma procediamo con ordine.
Si è sempre molto presi dal parlare. Quasi sempre quando siamo presi dal parlare sentiamo il bisogno di essere visti, amati, compresi. Rischiamo così di divenire un fiume in piena, che scorre senza rispettare alcun argine. L’altro diventa funzionale a se stessi, un “oggetto” relazionale, una prova del proprio diritto ad esistere, piuttosto che una preziosa possibilità di scambio e crescita.
Lasciando spazio all’altro si è in grado di ascoltare le risposte a quelle che, altrimenti, diventerebbero solo domande, cui non sempre si riesce a rispondere da soli. Si passa, così, dal monologo interno al dialogo. Ascoltare l’altro è come guardare in uno specchio. Vedere riflessi i propri stati emotivi nelle reazioni dei nostri interlocutori ci aiuterà a comprendere quegli aspetti di noi poco chiari, che non si accettano o che in fondo ci fanno paura. Se riusciamo a stabilire un contatto con l’altro superando il nostro egocentrismo, si potranno comprendere meglio anche i propri pensieri, che spesso si aggrovigliano senza che si riesca a trovare vie d’uscita.
Saper ascoltare è però frutto di un percorso, che richiede pazienza. E’ una “decisione” non formale, che coinvolge interamente la persona e la porta ad aprirsi e a cercare il contatto. Alla base di questa scelta ci sono la volontà di appagare i propri bisogni (essere compresi, chiarirsi, sviluppare nuove idee, ecc.) e il desiderio di crescita personale. L’ascolto è influenzato dal livello di stima che si ha del proprio interlocutore. Ascoltare in modo attivo significa decidere di passare da un atteggiamento del tipo “io ho ragione, tu hai torto” che conduce solo al conflitto, ad una forma mentale che suggerisce: “io ho ragione, ma anche tu”, che porta a raggiungere uno spirito collaborativo nella discussione.
Se anche l’altro proprio non ci piace, bisogna ricordare che ogni incontro ha sempre qualcosa da darci, è una nuova esperienza. Non si sa da dove possa arrivare l’illuminazione, alle volte anche un incontro rapido e apparentemente inutile può riservare dei preziosi insegnamenti.
Ad un giudice saggio furono portati due litiganti. Egli ascoltò le ragioni del primo e decise: “tu hai ragione”. Poi il giudice ascoltò il secondo e disse: “Anche tu hai ragione”. Il consigliere intervenne: “eccellenza, ma non possono avere ragione tutti e due!”. Il giudice saggio allora disse: “Mmmm…, hai ragione anche tu”.
E’ impossibile conoscere la verità assoluta, poiché essa non esiste. L’unico modo è ascoltare per trovare una mediazione. Nella vita tutte le relazioni presuppongono un compromesso.
In genere quanto più i bisogni premono sulla persona, tanto più l’ascolto diviene selettivo, e tende a comprendere solo quello che appaga i bisogni e risponde alle proprie aspettative, procedendo paradossalmente anche nella direzione opposta al vero significato della comunicazione. Le aspettative distorcono l’ascolto perché lo veicolano verso una strada pre-disegnata. L’ascolto necessita di strumenti di decodifica indispensabili per comprendere il messaggio. Se il linguaggio utilizzato non è chiaro, ma è ermetico, manipolatorio, oppure il linguaggio tra i due referenti non è condiviso, la comunicazione può dare adito a fraintendimenti e incomprensioni. La situazione emotiva interferisce notevolmente sull’ascolto. Solo se la componente emotiva e quella razionale si trovano in equilibrio è possibile percepire correttamente anche i segnali non verbali attivati nella comunicazione.
Il contesto in cui avviene la comunicazione determina l’intensità e la qualità dell’ascolto, non solo per ovvi fattori ambientali (come la rumorosità di un ambiente). A seconda della dimensione sociale, pubblica, privata o intima, varia l’interesse ad approfondire lo scambio comunicativo, e viene attivata una diversa tipologia di ascolto, con maggiore o minore coinvolgimento emotivo. L’ascolto sociale consente di creare e consolidare i rapporti, per divertirsi, per esprimere amicizia, per sviluppare alleanze, ecc.. Le relazioni che si stabiliscono non sono però impegnative e la capacità di ascolto è superficiale, lascia poche tracce nella memoria. L’ascolto sociale si presenta come ascolto “tribale” poiché in esso i soggetti si scambiano codici relazionali di base. L’ascolto intellettuale è centrato sui dati, sui fatti, sulle informazioni. Si attiva la memoria “utile” alla risoluzione di problemi (lavoro, studio, ecc.) e all’apprendimento cognitivo. L’ascolto intellettuale è distaccato dalle emozioni, è formale, e si può paragonare all’immagazzinamento dei dati in un computer.
L’ascolto attivo consente di recepire informazioni razionali ed emotive, di comprendere non solo il messaggio, ma anche notizie sulla fonte da cui proviene e sull’intenzionalità, i bisogni e le aspettative dell'interlocutore. Se si ascolta attivamente l’altro, si riescono a percepire anche informazioni di cui lo stesso interlocutore non è a conoscenza (inconsapevoli), ma che trapelano dalla comunicazione non verbale. La forza dell’ascolto attivo è legata alla capacità di osservazione, analisi, introiezione e sintesi della comunicazione. Ascoltare senza emettere giudizi fa sentire l’altro maggiormente libero di esprimersi.
Se si nota che l'interlocutore è distratto, volge lo sguardo altrove, e il flusso di comunicazione si interrompe, bisogna tentare di richiamare la sua attenzione, ma se il tentativo fallisce, meglio desistere: senza l’ascolto infatti la dispersione della comunicazione è talmente elevata da portare a distorsione o azzeramento delle informazioni. Quando due persone entrano in contatto, tra di loro avviene un incontro, i monologhi divengono dialoghi, e se c’è la disponibilità alla comunicazione e all’apertura emotiva, si assiste ad un flusso armonico, dove ci si ascolta l’un l’altro. Un ponte di sguardi attenti è indice di un livello alto di attenzione. Non sempre si arriva a comunicazioni profonde e il livello di incontro può essere anche breve, ma è comunque importante che avvenga uno scambio che faccia comprendere i motivi della comunicazione e la situazione emozionale degli interlocutori.
Al termine di ogni incontro, ma solo al termine, è possibile analizzare sia il contenuto della comunicazione, sia il vissuto emotivo. Il giudizio complessivo di attrazione, repulsione o neutralità, farà comprendere il significato che ha avuto per sé quel dato incontro. Bisogna prima ascoltare se stessi e le proprie emozioni, chiedendosi: “come sto?”, per scoprirsi “tranquillo, agitato, sereno, pensieroso, inquieto, ecc.”. Solo in un secondo momento si possono elaborare le informazioni ricevute e organizzarle in pensieri precisi. Attenzione però a non stereotipare le relazioni. Dichiarare “mi piaci, non mi piaci” lega la relazione ad un’affermazione dicotomica, del tipo “o bianco o nero”, che non permette di vedere le molteplici sfumature che esistono. Non sempre il silenzio è implicito all’ascolto. Infatti l’ascolto attivo è fatto anche di domande e riformulazioni, utili a favorire la comprensione e la chiarezza. Riformulare serve a capire, a chiarire un concetto male espresso o non compreso a fondo. Riformulando una frase si mette l’altro in condizione di dover ascoltare di nuovo quanto ha detto, così da poter precisare meglio, confermare o addirittura negare il concetto espresso.
Beh mi sa che per oggi ho parlato un po' troppo. Vi lascio alle vostre riflessioni e vi rimando al prossimo post per continuare questo viaggio verso l'ascolto efficace. Ciao e alla prossima.

mercoledì 3 settembre 2008

Il pensiero creativo


Ciao a tutti, come promesso oggi cominciamo un viaggio attraverso le vie della comunicazione interpersonale. Perchè “Pensiero Creativo”? Beh, il pensiero creativo non è altro che la nostra creatività, certo tutti nella vita usiamo la nostra creatività, non solo nel campo della moda, design, spettacolo, arte, ma sempre e soprattutto nella comunicazione e nelle relazioni interpersonali.
Ma cos'è la creatività? La creatività è un’attitudine. Ogni essere umano, indipendentemente dal suo sesso, età, razza o religione, ha un potenziale creativo, ovvero la capacità di avere idee originali ed efficaci (J.P. Guilford); “La vita è uno stretto intreccio tra routine e creatività” (A. Maslow).
Creare significa innovare!!! E l'innovazione non ha proprio nulla e che fare con la routine! Nella storia gli uomini anno “capito” che RIPRODURRE è più semplice e gli innovatori, i creatori sono stati spesso emarginati. Il pensiero creativo produce associazioni tali da ridurre al minimo l'influenza dei filtri mentali (RICORDI, EMOZIONI, VALORI, ATTEGGIAMENTI, ASPETTATIVE) sempre presenti nel pensiero razionale; si parla spesso di pensiero laterale. “Ogni creazione è prima di tutto un atto di distruzione” (P.Picasso), bisogna avere il coraggio di definire “superato” il vecchio ed agire con creatività verso nuove idee affrontando con coraggio l'incertezza che il “nuovo” porta con sé. Ma veniamo a noi, qual'è la connessione tra il pensiero creativo e la comunicazione? Beh semplice, il linguaggio è il primo trasmettitore di creatività. La scelta dei termini, il modo di presentarsi, di esprimere la propria personalità, la composizione delle frasi sono segnali evidenti del livello di creatività che un individuo può sviluppare. La capacità di provare “stupore” è essenziale nel processo creativo. Il pensiero laterale permette di allargare le visioni, la ricerca di soluzioni. In realtà niente è inventato da zero, si tratta sempre di reinventare ciò che già esiste in modo creativo. Il bello è che il pensiero creativo si può sviluppare ed esistono diversi metodi per farlo. Il TRAINING consiste nel far fluire liberamente il flusso dei pensieri anche quelli che divergono dall'obiettivo specifico dell'attività (ad esempio può capitare che venga un'idea vincente quando si è impegnati in tutt'altra attività). Se si è in gruppo si può utilizzare la tecnica del BRAINSTORMING che consiste nel “buttar giù” idee in modo quanto più spontaneo e privo di valutazioni. Altre tecniche sono: la SINETTICA, il PROBLEM SOLVING, il ROLE PLAYING, la TECNICA DEI SEI CAPPELLI (magari riuscirò a parlarvene in qualche altro post ;-p )
Vi lascio con qualche parola di Pablo Neruda sulla sua visione della creatività. Vi aspetto la prossima settimana con un post sull'ASCOLTO EFFICACE fondamenta della comunicazione efficace.
“Lentamente muore chi diventa schiavo dell'abitudine, ripetendo ogni giorno gli stessi percorsi. Muore lentamente chi evita una passione, chi preferisce il nero su bianco e i puntini sulle "i" piuttosto che un insieme di emozioni, proprio quelle che fanno brillare gli occhi, quelle che fanno di uno sbadiglio un sorriso, quelle che fanno battere il cuore davanti all'errore e ai sentimenti.
Lentamente muore chi non capovolge il tavolo, chi è infelice sul lavoro, chi non rischia la certezza per l’incertezza per inseguire un sogno, chi non si permette almeno una volta nella vita di fuggire ai consigli sensati.
Lentamente muore chi non viaggia, chi non legge, chi non ascolta musica, chi non trova grazia in se stesso. Muore lentamente chi distrugge l’amor proprio, chi non si lascia aiutare; chi passa i giorni a lamentarsi della propria sfortuna o della pioggia incessante.
Lentamente muore chi abbandona un progetto prima di iniziarlo, chi non fa domande sugli argomenti che non conosce, chi non risponde quando gli chiedono qualcosa che conosce.
Evitiamo la morte a piccole dosi, ricordando sempre che essere vivo richiede uno sforzo di gran lunga maggiore del semplice fatto di respirare.
Soltanto l’ardente pazienza porterà al raggiungimento di una splendida felicità”
Se sei interessato/a ad approfondimenti GRATUITI sul tema iscriviti alla mia Newsletter!!!

Ti consiglio anche di approfondire il tema da questi link:
I SEGRETI DELLA CREATIVITA'
Come sempre PICCOLI costi per GRANDI INSEGNAMENTI !!!

martedì 2 settembre 2008

sabato 12 luglio 2008

MORIRE DI LAVORO – Comunicare la sicurezza

Gli incidenti, le morti bianche sono diventate ormai da tempo notizie che quasi non fanno “notizia”.
A volte sembra “normale”…si dice che il lavoro ha sempre fatto vittime innocenti nella storia; ogni lavoro ha i suoi rischi, ma io dico “Si può davvero accettare di MORIRE DI LAVORO?”.
Beh leggendo questo articolo tutti diranno: “Certo che NO!!!”. Siamo alle solite, predichiamo bene e razzoliamo male!
Da sempre all’università ho studiato “Sicurezza”, certo noi ingegneri siamo spesso chiamati a ruoli di responsabilità sul tema della Sicurezza, ma se devo dire la verità… Beh non sono mai stato convinto del “metodo”. Negli anni mi sono convinto sempre più che il problema non è la pericolosità dei luoghi di lavoro, quanto l’approccio con il lavoro in generale.
Sul tema della sicurezza manca sempre un tassello essenziale: “una comunicazione più efficace”, per la creazione di una più intima consapevolezza dei problemi.
Non posso restare a guardare quando alcuni amici (operai in edilizia) mi parlano della sicurezza come una vera e propria “palla al piede”, mi dicono che sono leggi ingiuste (si riferiscono alla 626 e alla 494). Dicono che sono leggi che fanno diventare la giornata lavorativa un vero inferno (più di quanto già lo sia); quei caschi, quegli scarponi, quei guanti, quelle imbracature… sono insopportabili!!!
E allora c’è veramente qualcosa che non va!
La legge 626/94 e le sue modificazioni hanno introdotto tutto un nuovo mondo sulla sicurezza, ma io mi chiedo: “Quanto le leggi sono realmente vicine alle realtà della vita di tutti i giorni?”, beh in realtà molte leggi sono, sono state e saranno lontanissime dalle realtà della vita.
Si prevede la figura del responsabile del servizio di prevenzione e protezione, una sorta si “guru” della sicurezza aziendale; poi si prevede un RLS “Responsabile dei Lavoratori per la Sicurezza”; corsi di formazione sulla sicurezza per gli uni e per gli altri, ovviamente separatamente per creare classismi anche su una materia che ha a che fare con la vita della gente.
Avete mai sentito della morte di uno di questi personaggi??? No, nel modo più assoluto!!! Muoiono solo poveri operai, magari sottopagati, non informati o che magari hanno “subito” qualche ora di corso sui possibili rischi del lavoro magari una sola volta nella vita; corsi noiosissimi fatti di una comunicazione inefficace ed inefficiente dei quali non resta quasi nulla in memoria.
In realtà credo che sia la stessa parola “SICUREZZA” a creare tutti i problemi!!!
Quando sei sicuro di qualcosa, di una situazione, di qualcuno?
Eh già… sicurezza significa letteralmente “essere certi che ciò che si sta facendo non implichi nessun danno a noi stessi prima di tutto e poi anche a chi ci sta intorno”. Essere certi che non ci possano essere danni crea una condizione mentale di superficialità, di poca concentrazione che porta ad errori di valutazione dei nostri comportamenti, errori a volte FATALI.
Cerchiamo di concentrarci sulla “INSICUREZZA” che il mondo intorno a noi ci propone; cerchiamo di essere sempre concentrati quando camminiamo su un ponteggio piuttosto che perder tempo a dire che quel ponteggio doveva essere una specie di “autostrada”; impariamo a gestire le emergenze che sempre ci potranno essere ed evitiamo di entrare in quattro uno dopo l’altro in una cisterna satura di gas letali!
Si tratta di buon senso, di amor proprio, di amore per la propria vita, la propria famiglia.
Pensiamoci, pensiamoci!!!
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