giovedì 13 novembre 2008

Comunicare in pubblico - II Parte

Ciao a tutti, riprendo oggi questa sequenza sulla comunicazione interpersonale con un po' di ritardo per problemi tecnici. Oggi tratteremo la fase decisiva del public speaking: il momento dell’orazione vera e propria.
Contrariamente a ciò che suggeriscono i decaloghi del public speaking, che ingessano la relazione, bisogna imparare ad essere interpreti del messaggio e non personaggi, lasciando spazio all’ironia, mostrando le proprie emozioni e ricercando il dialogo con il pubblico. Comunicare in pubblico è un compito non facile e, più aumenta il numero delle persone che ascoltano, più aumentano le difficoltà. Si perde il contatto diretto, si devono raggiungere tante menti diverse, ci si deve confrontare con universi emotivi spesso opposti e diminuisce la percezione visibile del feedback. L’oratore, come l’attore, affronta il palcoscenico con il corpo, la testa, il cuore, e deve essere perfettamente centrato su se stesso se vuole ottenere una performance di alto livello. Lo stile personale origina il carisma, ossia quel fascino che attrae le persone come una calamita e le apre all’ascolto. Gli oratori carismatici sono dotati di grande eloquenza, di un vocabolario ricco, di flessibilità vocale. Si muovono con grande disinvoltura sul palcoscenico e, come i grandi attori, sono in grado di tramutare una “papera” in una battuta ironica, di rivolgersi a tante persone come se dialogassero con un amico, con familiarità ed empatia. Dote indispensabile per parlare in pubblico è la capacità di concentrazione per lunghi periodi di tempo. Si entra in scena e si inizia, senza aspettare cenni di consenso da parte del pubblico. Mentre, da un lato, l’oratore deve restare in contatto emotivo con il proprio uditorio, da un altro egli deve anche sapersi isolare dall’ambiente esterno (dai rumori, dai disturbi), deve procedere lungo la strada del proprio pensiero. La timidezza si vince più probabilmente "buttandosi" nelle situazioni, di getto, affrontando il disagio di esporsi e lasciando la comodità del vivere da osservatori degli altri. Nelle scuole di teatro è la prima cosa che si insegna ai futuri attori. Provare, riprovare, imparare ad ascoltare quell’eco che alle prime esperienze continua a risuonare: il battito accelerato, la voce che rimbomba, che esce e si libera sempre più dalle emozioni negative. La timidezza si vince con la tenacia, affrontando la paura. L’ansia da prestazione è generata dalla paura del giudizio cui ci si espone. Le persone in preda all'ansia tendono ad affrettare i discorsi, a giungere prima possibile alle conclusioni per liberarsi di quel peso che quasi fa andare in apnea. Altre volte gli ansiosi sommergono l’uditorio di un fiume di parole, troppe, e dette troppo velocemente. L’arte del public speaking sta anche nel costruire lentamente la comunicazione, riflettere, vivere i silenzi come opportunità di concentrazione, rallentare per battere, paradossalmente, l’ansia. L’oratore perfezionista difficilmente piace al pubblico. Le persone hanno bisogno di serenità per ascoltare davvero, non devono vivere il nervosismo dell’oratore, né i tentativi di far apparire tutto a posto al 100%. Sull’incidente oratorio (ad esempio lapsus, gaffe, papere) i bravi comunicatori ridono per primi. Spesso, sono anche in grado di utilizzare quell’incidente come elemento di comunicazione. La comunicazione non verbale, espressa mediante il corpo, trasmette molto più delle parole, poiché è una comunicazione emotiva, inconscia. Lo stato d’animo del relatore viene dichiarato al pubblico anche senza intenzionalità. Cercare di nascondere le emozioni e bloccare il corpo produce solo un effetto ridicolo: in questo senso l’oratore non ha la capacità dell’attore di riprodurre gesti da copione, né deve acquisirla. I modelli del passato offrivano l’immagine di relatori compiti, impettiti, quasi ingessati, aggrappati ad un
leggio. Addirittura i best seller americani diffondevano inquietanti decaloghi su cosa fosse giusto o sbagliato nel public speaking, seminando panico tra i novizi e offrendo modelli stereotipati ai più esperti. In realtà regole non ce ne sono, l’importante è “arrivare” alle persone, stabilire un dialogo, anche se apparentemente dal pubblico non si riceve risposta. Come? Essendo davvero se stessi, offrendosi con grande slancio e disponibilità. Il relatore deve essere interprete del suo messaggio, ma non deve creare mai un personaggio. Questo diventerebbe la caricatura, la maschera: un filtro inaccettabile che è generato dalla ragione e blocca l’emozione spontanea. E’ più interessante sentire un oratore dichiarare: “sono emozionato”, che non soffrire insieme a lui mentre suda, si muove impacciato, non trova le parole, ma nega l’emozione sotto una maschera di apparente tranquillità. Tuttavia, alcune considerazioni sul corpo sono da ritenersi importanti per il public speaking. Ad esempio lo sguardo va rivolto a tutto l’uditorio, e di tanto in tanto fermato su un gruppo di persone: in questo modo la panoramica farà sentire tutti coinvolti, e il soffermarsi su alcuni, sempre diversi, sarà utile per personalizzare l’intervento. In sala bisogna muoversi: restare impettiti sempre nello stesso posto genera noia. Infine la voce deve essere attivante, deve cambiare di tono e ampiezza per dare ritmo alla comunicazione.
Per oggi mi fermerei qui, vi saluto e vi aspetto il prossimo mercoledì con il post conclusivo sul public speaking. Ciao

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